La vita

Vorrei iniziare questo breve excursus sulla vita di San Giuseppe da Leonessa partendo proprio da una lettera autografo da lui scritta e indirizzata al Duca di Parma Ranuccio I. Lui risiedeva a Perugia, ed era il 1 maggio 1610, due anni prima della sua morte. Quanto tenesse al bene dei poveri e dei malati e quanto fosse influente e conosciuto è quanto si evince da questa sua lettera! Questa lettera l’ho lasciata nella sua lingua originale, cioè nell’italiano volgare del tempo.

Cosa dire di questo excursus? Per primo, ha l’unico scopo di far conoscere a coloro che entrano nel Sito dei Manoscritti di San Giuseppe da Leonessa la sua vita, il suo impegno sociale, la sua predicazione, i suoi miracoli avvalendomi della collaborazione dei tanti che hanno avuto il privilegio di conoscerlo da vicino, di incontrarlo, di ascoltarlo, di goderne la presenza! Da qui segue che il mio compito sarà quello di lasciar raccontare i vari personaggi che noi troviamo nei Processi Canonici del 1628 e del 1639-41, da me trascritti e pubblicati. La lettura sarà sicuramente più scorrevole e la figura e la vita di San Giuseppe da Leonessa sarà più viva ed avvincente.


Serenissimo signore et padrone colendissimo, con humil ringratiamento di quanto gran bene si fa a’ poveri per ordine et clemenza di Vostra Altezza serenissima, humilmente l’aviso come, havendo io predicato questa quaresima ad Otricoli vicino ad suo Borghetto, ho cognosciuto che ivi, al Borghetto, ci sarebbe molto utile et necessario un hospitale per tanti poveri ch’ivi ci passano; et ho inteso qualcheduno che ce’ll’havrebbe molto a charo, non già di dentro all’incasato, ma fuora delle mura appresso all’hosteria grossa, delli cui molti avanzi, che la sera si buttano, sarebeno cibati l’istessi, come m’è stato detto, con qualche elimosima di passegieri senza scommodo dell’habitanti: non per dimorarci, ma per haverse’lli a fermar solamente per una sera.

Confidentemente dunque prego si degni ponersi in consideratione, se gli paresse darne commissione al suo officiale, che, senza agravarsi quella povera co’mmunità, ci facesse fabricar solamente dui stanzie separatamente, una per l’huomini et l’altra per le donne.

Intanto, rimettendomi sempre al suo potere et persuadendomi che tra le tante sue opere pie questa sarebe accettissima al nostro Signore Giesù Christo, per ciò, da sua divina Maestà, come devo, gli prego longa vita et sanità, con ogni felicissima prosperità in sua divina gratia et poi l’eterno premio in gloria.

Dal nostro loco di Perugia, il primo di magio 1610.

Di Vostra Altezza serenissima

Minimo servo in Christo obligatissimo

Fra Gioseppe di Leonessa capuccino


Qualche breve cenno per inquadrare la sua figura taumaturgica all’interno della storia.

San Giuseppe era morto il quattro febbraio del 1612, ebbene a distanza di sedici anni inizia il cammino della Chiesa che lo proclamerà Beato nel 1737 con Clemente XII e Santo il 29 giugno del 1746 con papa Benedetto XIV. All’inizio c’è stata la curiosità, ma via via veniva a stagliarsi una figura bellissima, piena di sensibilità, aperta al sociale, nel proteggere i poveri contro l’usura e nel creare i Monti Frumentari, e alle problematiche della gente, tanto umile e povero ma anche tanto sicuro, tenace e coraggioso nell’affrontare i rischi, e ricco del suo amore, nel donarsi a tutti indistintamente.

La sua figura mi ha creato fascino, ammirazione, gioia! È come quando ti accorgi di fare una scoperta che non puoi tenere per te, la vuoi e la devi rendere partecipe anche agli altri.

Pensavo che fosse solo una mia impressione, per il legame affettivo che mi lega a lui da oltre un trentennio, così ho chiesto pareri e conferme e il risultato è che abbiamo affrontato insieme il lavoro con entusiasmo gioioso e scrupoloso certi di offrire un contributo grandissimo ai devoti ma allo stesso san Giuseppe da Leonessa per il suo forte messaggio che lo rende di grande attualità!

Precisiamo subito: il nostro non vuole essere un servizio che vogliamo rendere agli altri ma a noi, suoi devoti, di Leonessa o non, e all’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, nel ricercare il ‘carisma’ della vita cappuccina di oggi, nel rileggere e dare più importanza a queste figure vere che hanno costruito la storia del nostro Ordine e della Chiesa nell’immediato periodo del dopo Concilio di Trento. E’ doveroso, dopo tanti secoli, possedere una conoscenza meno approssimativa, vagliata dalla critica storica e purificata da interpretazioni soggettive legate a periodi culturali capaci di deformarne l’immagine e, di conseguenza, anche l’approccio personale. Quante notizie abbiamo, tramandate dalla memoria orale e scritta, e che noi per tanti secoli abbiamo ignorato! Pensiamo un po’ alle bellissime pagine dei Manoscritti di san Giuseppe da Leonessa che rivelano la sua grandezza d’animo e la sua spiritualità. Esse sono espressione e caratteristica, oggi usiamo il termine ‘carisma’, dell’appena nato Ordine dei Cappuccini, ma non possiamo dimenticare la vita cristiana vissuta all’interno di una famiglia o di un paese quale Leonessa, pieno di fede e capace di tramandare ai posteri monumenti bellissimi che ancora oggi possiamo ammirare, nonostante i terremoti! Forse che la storia si è fermata?

Ora, diventa spontanea la domanda: è possibile delineare la figura di san Giuseppe da Leonessa il più attendibile possibile? Direi di più: ciò che noi sappiamo di san Giuseppe da Leonessa corrisponde pienamente al vero oppure abbiamo ereditato una immagine filtrata legata ad una cultura e ad un genere letterario che non poteva presentare diversamente le linee portanti dei santi?

Possiamo forse riconoscere che l’attaccamento comune, la venerazione dei suoi devoti non si era mai posta la domanda sul Santo, almeno nei termini che ci vengono posti dai Processi? Se questo affetto dei leonessani, e dei devoti in genere, è così forte, cosa potrebbe diventare dopo la lettura delle testimonianze?

San Giuseppe l’ho conosciuto e l’abbiamo ereditato tutti come uomo rozzo nei suoi rapporti con gli altri, poco socievole, che sfuggiva tutti, che divorava le fave secche… Eppure si è detto di lui: “Aveva sempre il volto bello, rosso e allegro”.

“A me, suo compagno, aveva ordinato di avere cura dei poveri che passavano presso la casa dove abitavamo e di dare loro da mangiare e lui stesso li chiamava a casa, portava loro cibo, insegnava loro ad essere buoni cristiani”. La sua vita l’ha passata in mezzo alla gente. “Mi trovavo nella Villa di san Giacomo, vicino a Spoleto, nel 1611 a dipingere una Cappella e venne a predicare fra Giuseppe da Leonessa Cappuccino, che si mostrò sempre pieno di grande carità verso i poveri e vidi spesso i poveri recarsi in sacrestia e in un orto vicino e lui con molta carità, li lavava, li spidocchiava, li radeva e cercava di dare loro qualche straccio di camicia che si procurava dalla gente e dava da mangiare a loro quello che portavano a lui e così molto spesso gli restava soltanto un po’ di pane che andava a consumare vicino a qualche fosso d’acqua torbida. Questi poveri li esortava ad avere pazienza e timore di Dio e, come ho già sottolineato, in tutto questo traspariva ardentissima carità mentre dagli altri tutte queste azioni erano considerate ripugnanti”.

Predicava tantissimo, tenendo più prediche in un giorno e in luoghi diversi, piantava le croci per tenere viva la Passione di Gesù e la figura di un Dio misericordioso, aveva cura delle chiese dovunque si recava, procurando calici, patene, corporali, aveva cura dei malati, si prodigava a favore dei poveri, dei bambini insegnando loro la dottrina cristiana. Era un uomo di pace! Si è tanto parlato di san Giuseppe da Leonessa ma di lui, al di là di alcuni episodi che creano solo una sensazione taumaturgica esteriore e un forte legame alla sua terra, abbiamo pochissima conoscenza. Abbandonò le ricchezze sorretto dalla speranza della vita eterna. Si flagellava, pregava incessantemente, anzi “tutta la sua vita era preghiera”, trascorrendo molte ore davanti all’Eucarestia, aveva un cuore eucaristico e, durante il giorno, quando era in convento visitava e portava i suoi devoti a visitare il ‘Padrone di casa’, digiunava spesso ma non rifiutava di bere un po’ di vino! Si considerava vile e inferiore a tutti e non evitava né fatiche, né sofferenze. Fu un grande predicatore ma dotato di grandissima umiltà.

Da qui l’esigenza di presentare la sua vita attraverso le testimonianze e i racconti di chi lo ha incontrato e lo ha conosciuto. “Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere”(Mt 7, 20). E noi abbiamo il grande vantaggio di conoscere e cogliere i frutti buoni dall’albero buono di san Giuseppe, in tutti i 56 anni della sua esistenza, perché ha avuto dei testimoni attendibili, dei veri osservatori che, quasi giornalmente, ne descrivevano gli incontri, la predicazione, la vita!

Non solo abbiamo dei fedeli che apprezzarono le sue doti umane e spirituali (dalle testimonianze emerge un grande amore, rispetto ed ammirazione, proprio da coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo e di ascoltarlo) ma, degne di ogni rispetto, le figure dei ‘Compagni di predicazione’ perché in quei tempi san Giuseppe, come tutti i Frati dell’epoca, aveva il dovere di andare a predicare, o comunque di fare apostolato in mezzo alle folle, mai da soli ma sempre in due. Il che rende facile riscoprire la vera identità umana, cristiana, religiosa e spirituale di san Giuseppe e sono loro che possono scrivere la storia di preghiera, del suo Apostolato in mezzo ai poveri, ai malati e agli ultimi, i dimenticati dei vari territori montani dell’Umbria, dell’Abruzzo e delle Marche, in mezzo a tanti rischi e pericoli, e, per qualche tempo, a Costantinopoli in mezzo agli schiavi del porto! Come non sottolineare, tra i tanti, il miracolo della moltiplicazione dei pani a favore dei tantissimi poveri, una felice costante in ogni predicazione di Quaresima, nella Quarta Domenica proprio a ricordo della moltiplicazione dei pani operata da Gesù? Desiderò recarsi a Costantinopoli, come abbiamo detto, per ricevere il martirio, per predicare e convertire quel popolo.

Così conosciamo, quasi passo passo, i luoghi della sua predicazione, i suoi miracoli, quell’alone di mistero e di santità che lo accompagnava e lo rendeva sempre più caro e famoso e rispettato da tutti, credenti e non credenti perché tutti lo ritenevano il martire ‘del gancio’! Fu un personaggio, suo malgrado, e tale è rimasto fino ai nostri giorni. Per capirci, anche se con sfumature diverse: quante notizie, esperienze bellissime sicuramente verrebbero fuori ancora se coloro che hanno incontrato e conosciuto Padre Mauro Coppari, raccontassero i loro incontri pubblici e personali? Lo stesso risultato lo avremmo se soltanto mettessimo insieme le tantissime fotografie che lo ritraggono nei suoi numerosissimi incontri!

Quando ho letto per la prima volta i Processi del 1628, nella lingua volgare di quel tempo, mi è apparso forte lo spacco tra l’eredità che abbiamo oggi e la verità della sua vita.


POVERI

“Quando ho frequentato fra Giuseppe sia nei Conventi che come Compagno nelle prediche, l’ho visto sempre avere grande carità verso i poveri e ringraziava se a lui mancava [286] il pane. Dove veniva a sapere che c’erano malati, dopo averli ricercati con diligenza, non si risparmiava nessuna fatica; si intratteneva volentieri per la pace, esortando tutti ad essa e alla tranquillità. Con le sue mani puliva le piaghe degli infermi, buttava le immondizie e provava grande consolazione quando poteva radere i poveri e i pellegrini. So che faceva recitare le formule della dottrina cristiana ai fanciulli e agli altri e insegnava il Padre Nostro e l’Ave Maria. Di questo sono al corrente perché l’ho visto e inteso, come ho affermato sopra. Ed è pubblico e noto anche tra i Frati”.

(Frate Bernardino Di Villa Sterpetti, Cappuccino, 7 agosto 1628)

 

Fra Giuseppe era oltremodo caritatevole e si diede da fare perché la sua parte e quella [320] del fratello e dello zio, cioè il patrimonio paterno, fosse distribuito alle chiese e ai poveri, per la conversione dei peccatori e per aiutare i devoti che si raccomandavano a lui. Si flagellava spesso, pregava, digiunava e compiva altre opere buone per i buoni, perché riteneva che un’anima fosse tanto cara a Dio. Curava volentieri gl’infermi, andando negli ospedali, particolarmente nell’Anno Santo del 1600, recandosi a Otricoli, che era luogo di passaggio dei pellegrini e qui li aiutava, si prendeva cura dei bisognosi e per questo girava a fare la questua, utilizzando anche quanto gli veniva corrisposto ogni giorno per la sua predicazione e per il vitto giornaliero. Curava con le proprie mani le ferite e le ulcere dei poveri infermi e lavava, puliva e medicava le ulcere; ancora, baciava, faceva la barba ai poveri, anche se avevano il capo pieno di sporcizia e non provava schifo; faceva tutto ciò con grande sollecitudine e carità e rifaceva anche loro i letti, non preoccupandosi affatto dei mali contagiosi”.

(Padre Francesco da Leonessa Cappuccino, 8 agosto 1628).


MONTE DI GRANO

[481] “A Campotosto, mia patria; durante la sua vita, fra Giuseppe fece fare un Monte di Grano per distribuirne ai poveri, e quando lo realizzò, andò accrescendo ogni giorno di più. Delle altre cose, dei miracoli e delle grazie, io non ho tenuto conto più di tanto. Di quanto ho testimoniato, ci sono state e ci sono ancora adesso voce e fama pubbliche a Campotosto e ad Amatrice e questa è la verità”.

(Signora Marchesana madre di Luca Federici della Villa Campotosto di Amatrice)

 

“In quel periodo di predicazione io lo vidi sempre molto sollecito nel giovare al prossimo. Quelle popolazioni, durante la Quaresima, avevano preparato per fra Giuseppe grano per fare il pane, ma lui non lo volle, e diede disposizione che quel grano fosse il primo del Monte di Pietà che istituì [531] per i poveri e così fu fatto. Voleva trarre dal suo cibo l’elemosina per amore di Dio e a volte prendeva l’obolo da coloro che lo offrivano. Quei fedeli avevano anche preparata per fra Giuseppe una casa confortevole, ma lui la rifiutò con determinatezza perché avevano mandata via da essa una donna e si procurò un’altra abitazione, vicino alla chiesa, e si rifiutò di dormire sul pagliericcio sistemato nel letto, ma lo mise a terra e lì riposò per tutto il periodo della Quaresima”.

(Fra Taddeo di Villa Scai di Amatrice, cappuccino di anni 75).


BIANCUCCIO

Posso semplicemente riferire quanto segue. Un giorno stavo recandomi in campagna con un certo Biancuccio di qui, e mi pare che si chiamasse Giovanni Cola, e non ricordo bene se tornavamo da Spoleto con il vino o se vi eravamo stati per altre commissioni. Si incominciò a parlare di padre Giuseppe da Leonessa Cappuccino e Biancuccio mi disse che era una persona onesta, un santo e mi raccontò che lui una volta doveva avere venti ducati da Ottaviano Paolini per una casa [65] che gli aveva venduto; Ottaviano glieli aveva promessi all’insaputa di suo padre, perché suo padre acquistasse la casa venduta da Biancuccio. Poiché non c’era nessun atto scritto, Ottaviano lo negava e non voleva darglieli. Un giorno Biancuccio, disperato, prese l’archibugio lungo, una piccola pistola e un pugnale e con queste armi uscì da casa e scappò fuori dalla Porta del Colle per andare a compiere il suo progetto di ammazzare Ottaviano perché gli era stato riferito che stava dopo il Convento dei Cappuccini, ad un tiro di archibugio, a raccogliere il fieno in un prato di sua proprietà. Mentre transitava davanti alla Chiesa dei Cappuccini, incontrò fra Giuseppe da Leonessa che lo invitò a fermarsi un pò. Poiché Biancuccio non voleva, fra Giuseppe gli andò incontro, lo raggiunse, lo prese per il colletto chiedendogli dove voleva recarsi; lo invitò ad entrare in Convento con lui perché desiderava parlargli, ma Biancuccio gli rispose, un po’ seccato, che lo lasciasse in pace, magari gli avrebbe parlato al suo ritorno; fra Giuseppe [66] irremovibile, gli replicò che doveva farlo adesso e che perciò doveva seguirlo. Biancuccio cedette all’insistenza del Frate ed entrò in Convento con fra Giuseppe; poi, fattolo entrare nella sua camera, gli fece confessare la sua perversa intenzione di uccidere Ottaviano. Lo ripulì delle sue armi che portava addosso e lo accompagnò nel Coro della Chiesa, invitandolo a recitare una preghiera a sant’Onofrio; in ginocchioni, lo invitò a toccare i suoi piedi e si fece promettere che non avrebbe danneggiato Ottaviano e lo esortò a stare tranquillo perché il suo problema si sarebbe concluso bene prima della notte; così Biancuccio si accomiatò da fra Giuseppe più leggero e si avviò verso Leonessa e lì, mentre entrava nella porta della città da dove prima era fuggito, incontrò Onofrio Mastrozzi che lo chiamò e gli comunicò che il suo affare era risolto e così lui si calmò ed ebbe i soldi; quando Biancuccio mi raccontò l’accaduto, fra Giuseppe era ancora vivente ma non ricordo [67] in quale Convento fosse, e me lo riferì penso proprio mentre tornavamo da Spoleto con il vino”.

(Bernardino detto Tubino genero di Salvatore Recalzati di Leonessa, mercoledì 12 aprile 1628)


PANE SCURO E PANE BIANCO

“So che padre fra Giuseppe da Leonessa, Cappuccino, che è stato mio Guardiano nel Convento di Amatrice 30 anni fa circa, aveva molta carità verso il prossimo e in particolare verso i poveri prigionieri e i malati e altre persone misere. Mi ricordo che nel periodo della Domenica, quando di solito entra nei nostri Conventi grande quantità di pane bianco, lui mi chiese perché portavo il pane scuro ai poveri che bussavano alla porta e io gli risposi che ce n’era molto di quello nero e poi che quello scuro serviva per i poveri e allora padre fra Giuseppe con grande enfasi: “Voglio che tu dia ai poveri quello bianco, voglio che tu dia ai poveri quello bianco” e mi sembrava che avesse grande carità anche nella predicazione. Alcune volte sono andato con lui [281], come compagno, e mi ricordo che una volta che stava a Montereale, predicò per le Ville anche più volte in un giorno. E mi pare che un giorno ne fece 11 o 12* e si rifocillò pochissimo. Un’altra volta nel giorno di san Lorenzo, stava predicando a Pizzoli, vicino L’Aquila, e partì senza aver mangiato nulla, nonostante che dai Frati di quella Comunità gli fosse stato preparato un buon pasto e finì per elemosinare un po’ di pane ad una casa, che consumò presso una fontana e io stavo con lui. Ho anche inteso dire che fra Giuseppe è stato a Costantinopoli a predicare agli infedeli e questo l’hanno riferito sia i Padri del nostro Ordine che lui stesso”.

(Fra Lorenzo da Castro di Pece, Fratello laico, 3 agosto 1628).


PREDICAVA PIÙ VOLTE AL GIORNO

“Soccorreva i malati in tutte le loro necessità, e quando vedeva un [236] confratello afflitto e malinconico, lo consolava tanto dolcemente che mai nessuno si allontanava da lui senza sentire allegria e dolcezza spirituale; dove stava lui non c’era parola inutile, ma soltanto buoni discorsi sui benefici della Passione di nostro Signore oppure discuteva sulla nostra Regola e cose simili. Si esercitava a recitare preghiere e correggeva i Frati che avessero pronunciato qualche parola vana; era amato da tutti i laici, e quando erano malati e bisognosi desideravano e chiamavano fra Giuseppe; io stesso ho visto alcune persone che cercavano solo fra Giuseppe. Era tanto zelante nella salvezza delle anime che mai si stancava di predicare al popolo la parola di Dio, tenendo più Omelie in uno stesso giorno anche in luoghi distanti tra loro tre quattro miglia e per questo i Superiori non trovavano Frati che potessero resistergli e fargli compagnia e nell’Ordine è una cosa pubblica che fra Giuseppe, in un periodo della sua vita, con il permesso dei Superiori, andò in Turchia a predicare la santa fede di Cristo con la speranza di ricevere il martirio e soffrì molti disagi durante questa esperienza e [237] stette appeso per un piede ad un gancio per non so quanto tempo e fu poi liberato da un giovane che si ritiene fosse un Angelo inviato da Dio”.

(Fra Francesco da Cascia, Cappuccino, 24 aprile 1628).


UOMO DI PREGHIERA

“Ricordo che una volta, tra le altre, lui stava predicando a Ceselli, diocesi di Spoleto, di notte e uno o due giorni dopo il parroco di quel luogo, Don Giulio, riferì che si erano convertite molte persone e, in modo particolare, molte si erano andate a [96r] confessare da lui e anche una che non lo faceva da 25 anni.

15°: non ho mai sentito che padre fra Giuseppe abbia avuto qualche difetto né grande né piccolo e so molto bene che lui era molto osservante dei Comandamenti di Dio e della Chiesa e anche della Regola di San Francesco e dei Cappuccini. E questo lo so bene perché l’ho osservato quando siamo stati di famiglia insieme e sono stato suo Compagno quando predicava. Non ha mai pronunciato una parola oziosa e lo stesso è stato riferito dagli altri Padri, ma non ricordo chi fossero, anche perché era una cosa riconosciuta da tutti nel nostro Ordine e tutti i Padri ne erano al corrente.

16°: A volte, mi sono recato nella sua cella e una volta verso le tre o e quattro della notte, spesso lo vedevo appoggiato al capezzale, non coricato, con il mantello in dosso, con in mano il Crocifisso vicino agli occhi e a me che gli domandavo perché non si coricava visto che presto sarebbe stata l’ora del Mattutino. Lui mi rispondeva: “Non è cosa da poco se un Frate riposa pochissimo”. E io che lo invitavo: “Toglietevi il mantello e mettetevi giù come tutti gli altri”, lui mi rispose: “Il nostro peggior nemico è frate asino: è meglio che soffra il corpo sulla terra, piuttosto che l’anima nell’altro”. E sia il corpo che tutte le altre cose io le ho viste, come ho già dichiarato, e lo avranno visto anche gli altri Padri che stavano con lui in Convento. Recitava l’Ufficio con i Padri e so pure che oltre alle Ore Canoniche recitava pure l’Ufficio della Madonna e di San Giuseppe e il Rosario e tutte queste cose che ho riferito, le so perché le ho viste e perché anche altri Padri mi hanno riferito che pure altrove si comportava così!

So che padre fra Giuseppe fu un Religioso di grandissima fede e io una volta potetti verificarlo perché ero presente quando lui stava in questo Convento dei Cappuccini ed era Guardiano ed io stavo con lui; venne un Frate dello stesso Convento a dirgli che c’erano molti poveri a chiedere l’elemosina e che lui non aveva nulla da dare loro. E lui rispose ordinando che venisse offerto loro tutto quello che c’era, che Dio avrebbe provveduto.

Era fervente e pregava incessantemente e l’ho visto io tante e tante volte ed è quasi impossibile raccontare quanto tempo stava in preghiera in chiesa, nel Coro e altrove e perfino in casa mia. Aveva sempre con sé un Crocifisso con una Madonna di rame intagliata nel mezzo e io l’ho osservato spesso rivolgersi con grande devozione alla Madonna e al Crocifisso anche mentre svolgeva alcune attività semplici come camminare, passeggiare e in altre [514] occasioni. Insegnava anche le preghiere e le nozioni della dottrina cristiana ai contadini, ad altri e ai fanciulli e questo l’ho visto con i miei occhi, quando andavo a visitare i malati nelle nostre Frazioni.

Sono anche al corrente che padre fra Giuseppe si recò a Costantinopoli a predicare la fede di Cristo specialmente in un luogo detto ‘bagno’, dove si trovavano tanti schiavi e lo riferì lui stesso nel Convento dei Cappuccini di questa Terra, mentre stava qui come Guardiano ed anche in casa mia e l’ho sentito anche da altri Frati”.

(Giovanna di Annunzio Laureti di Leonessa. Proc, 1639-41).


MOLTIPLICAZIONE DEI PANI A BORBONA

“Come ho riferito sopra, quando fra Giuseppe predicò a Borbona, io ero suo compagno e in quella terra c’era una grande carestia e i poveri erano in grande necessità. Lui fece in modo che fosse raccolto del grano per darlo ai poveri nella Quarta Domenica di Quaresima. Così fu fatto e dopo la sua predica, nella Domenica stabilita, furono portate da due donne nella chiesa della Madonna due ceste piene di pane e furono collocate sul [357] gradino dell’altare. Arrivò in chiesa il padre Giuseppe, benedisse il pane e ordinò di distribuirlo ai poveri, che già si erano radunati nella chiesa, ed erano circa 200. Insieme ai confratelli cominciammo la distribuzione del pane, del peso di tre o quattro once ogni pagnotta e ne venivano date 2 o 4 o 6 e a volte 12 o in quantità superiore in base alla povertà e alle esigenze dei richiedenti. Prima della distribuzione si pensava che non potesse bastare per tutti, perché era accorsa molta gente ed erano tornati di nuovo coloro che l’avevano avuto già una prima volta, ma alla fine fu sufficiente per tutti, anzi avanzò e fu custodito nelle case e nella nostra ne restarono da 3 o 4 infilate di 12 pagnotte l’una. Il padre ogni mattina ne toglieva una fetta per ciascuno, credo per devozione, e durò per molti giorni. Questo l’ho visto personalmente e fu ritenuto un grande miracolo”.

(Reverendo padre fra Matteo di Leonessa, Sacerdote Cappuccino, 21 agosto 1628).


 PACE AD AMATRICE

“Ho conosciuto benissimo il padre fra Giuseppe da Leonessa Cappuccino fin da ragazzo e so che era un uomo di grandissima carità sia verso Dio che verso il prossimo. Quasi tutte le volte che lo vedevo stava pregando o dando esortazioni al prossimo o compiendo mille altre opere buone. In particolare posso raccontare che circa venticinque anni fa la mia famiglia era in lite con quella dei Ficcardi di Amatrice per diversi problemi sorti tra noi. Un venerdì mattina, come al solito, presi le armi con sette o otto uomini armati con archibugi per recarmi a L’Aquila e uscii di casa. Poiché sentivo di incontrare i nemici, prendemmo la strada dei Cappuccini di Amatrice. Mi accorsi subito che gli uomini dell’altra famiglia risalivano a piedi il fiume; li riconobbi ed avvisai subito i miei uomini e incominciammo a sparare colpi di archibugi contro di loro che erano una quindicina. Appena l’eco degli spari degli archibugi giunsero agli orecchi di fra Giuseppe Cappuccino, di famiglia in quel tempo nel Convento di Amatrice, corse verso di noi, scalzo giù per i dirupi con un Crocifisso nella mano destra e subito si pose tra l’una [387] e l’altra parte e iniziò a esortarci a smetterla di sparare: “Ah figlioli, per amor di Dio, tenete a freno l’ira, guardate questo Crocifisso e per queste santissime Piaghe fermatevi, fermatevi” e parole simili. E correva, spostandosi ora da un lato ora dall’altro mentre noi continuavamo a sparare archibugiate. Intanto accorsero molte persone che si schieravano o a favore di una o di un’altra parte. Questo duello durò sei o sette ore e durante tutto questo tempo nessuno rimase ferito, nemmeno fra Giuseppe che per tutto quel periodo rimase in mezzo ai colpi di archibugi. Dato l’esito, credo fermamente che Dio ci fece la grazia, per intercessione di fra Giuseppe Cappuccino di Leonessa e alla fine, dopo tante insistenti preghiere di fra Giuseppe, tornammo indietro sia noi che gli altri. Se non fosse stato per fra Giuseppe ci saremmo battuti con le armi corte dato che ad entrambe le parti erano venute meno le munizioni ma abbondavano i viveri e il vino che ci tenevamo stretti. Tutto ciò era palese a tutti e ognuno si meravigliò di come fra Giuseppe avesse potuto resistere correndo sempre ora qua e ora là, per tutto il tempo dello scontro, pregando ed esortandoci, come ho già detto, senza né mangiare né [388] bere un bicchiere di acqua e si può pensare che fra Giuseppe stesse a digiuno perché era di Venerdì e presto. So che si adoperava molto a riportare la pace e la concordia tra le persone che stavano in lite e questo è noto a tutti e non risparmiava nessuna fatica né pericolo pur di compiere qualche opera di carità”.

(Signor Pompeo Piccardi di Amatrice, di 45 anni)


PACE TRA BORBONA E POSTA

 “[359] Quando predicò a Borbona, io ero suo compagno, si accorse che quella terra era in grande e pubblica discordia con quella di Posta, per dei confini e per questo motivo erano sorte tra loro contese ed erano state spese enormi somme dall’una e dall’altra città. Anche il Cardinale Farnese e il Duca di Parma avevano cercato di rappacificarle inviando Monsignori ma senza esito. Allora fra Giuseppe si adoperò moltissimo per riportare la pace e a tale scopo celebrò e fece celebrare molte sante Messe e fece tenere le 40 Ore e indisse un tempo di penitenza, spingendo il popolo alla preghiera, ma senza dire chiaramente per quale fine: lo confidò soltanto a me. Si recò anche diverse volte a Posta, per riconciliare gli animi e predisporli alla pace. Addirittura, un giorno, mi sembra che fosse la Seconda Domenica di Pasqua, poiché in una Chiesa di san Francesco dei Frati Conventuali nel territorio di Posta, c’era una Indulgenza plenaria, fece in modo che i cittadini di Borbona andassero lì in processione e quelli di Posta uscissero incontro a loro e così, quando quelli di Borbona s’incamminarono dietro il Crocifisso, vestiti di sacco, giunti vicino a Posta, trovarono gli abitanti di questo paese anch’essi vestiti di sacco e i due Crocifissi, dell’una e dell’altra Compagnia, si incontrarono e si avvicinarono [360] in segno di pace e veramente, dopo fecero la pace. In seguito, dopo che arrivarono alla chiesa di san Francesco e ebbero ricevuta l’indulgenza, i cittadini di Posta offrirono a quelli di Borbona una buona colazione di cibi già preparati, e vini e altro ancora e così si riconciliarono. Poi, uomini di ambo i paesi discussero seriamente per risolvere le divergenze e ci riuscirono e da quel momento in poi sono vissuti e ancora vivono tranquilli e uniti. Queste notizie io le so perché fui presente e con me padre fra Giuseppe perché seguimmo la Processione degli abitanti di Borbona”.

(Reverendo padre fra Matteo di Leonessa, 21 agosto 1628)


 MIRACOLO DEL BAMBINO A BORBONA

“Quando ero ragazzo a otto anni mi ammalai a causa di una abbondantissima emorragia, per la quale i medici mi avevano dato per spacciato. Non ricordo chi fossero tali medici, ho memoria del medico di Amatrice, di Rauco di Leonessa. Mentre ero malato venne a Borbona fra Giuseppe Cappuccino da Leonessa e quando mio padre seppe della sua venuta, l’andò a trovare nella chiesa della Madonna della Porta di Borbona. Allora [268] cominciava ad operare miracoli. Mio padre parlò a fra Giuseppe e lui gli chiese perché era così triste e lui rispose che aveva un figlio infermo con la febbre a causa di una emorragia, che i medici lo avevano considerato senza speranza. Fra Giuseppe lo invitò a stare allegro perché non era niente e lo rimandò a casa imponendogli di portare me dalla Madonna. Quando mio padre tornò a casa, mi trovò che passeggiavo per casa, mi ero alzato dal letto perché libero dall’infermità e quando mio padre mi vide, cominciò a farsi il segno della Croce e a domandarsi come mai stessi in piedi, guarito, dal momento che quando lui era uscito da casa io ero quasi morto e i medici mi avevano dato per spacciato. Allora mio padre riconobbe che avevo ricevuto la grazia da nostro Signore Dio per intercessione di fra Giuseppe. E ci raccontò ogni cosa del suo colloquio con fra Giuseppe e quello che gli aveva ordinato. A me sembra che in quel momento in casa mia erano presenti anche il parroco di Borbona e i miei parenti e così tutti ringraziammo il Signore e fra Giuseppe. Poi mio padre, per ottemperare a quanto fra Giuseppe gli aveva imposto, mi prese in braccio e mi condusse da fra Giuseppe che stava lì nel cortile della casa del signor parroco Lopez, vicino alla Madonna, con alcune persone. Mi presentai a [269] fra Giuseppe e lui mi prese per mano, poi pose la sua mano sulla mia testa, si tolse da una manica un piccolo crocifisso, me lo appese al collo con un filo e ordinò a mio padre di riportarmi a casa e così rientrai tutto contento e, come mi pare di ricordare, dando la mano a mio padre. Appena giunti a casa, cominciammo tutti di nuovo a gridare: “Miracolo, miracolo” e i vicini e le altre persone che mi vedevano camminare per strada, si meravigliavano che ciò avvenisse dal momento che sapevano che avevo una infermità grave da circa un mese, che mi aveva ridotto tutto ossa e nervi. Questo miracolo fu divulgato in tutta Borbona. e da allora in poi non ho più sofferto per questa malattia”.

(Dottor Filauro Quaglia di Borbona)

“Come ho già detto alle signorie vostre Illustrissime, io ho assistito e ho ascoltato la predizione che fece a mio padre, durante la sua vita, e anche le altre grazie ricevute da altri e di questo ho parlato sopra. Sono a conoscenza e ho visto il miracolo [49r] del cieco nato, che si chiama Felice di Benedetto Chiaretti e di donna Ansidonia, sua moglie, di Leonessa. Felice nacque cieco e rimase in tale condizione sette o otto mesi circa, nel 1630. Un giorno di aprile, ma non ricordo quale, mi chiamò il suddetto Benedetto perché andassi a visitare suo figlio che era nato quattro giorni prima. Mi recai da lui in quanto medico di quella terra. Appena entrai nella casa, i suoi genitori mi domandarono perché, nonostante fosse nato da quattro giorni il loro bambino non aveva ancora aperto gli occhi. Dissi loro: “Fatemelo vedere”. Lo feci portare alla luce della finestra per poter distinguere più facilmente quale fosse il difetto. Mi accorsi che le palpebre erano attaccate l’una all’altra e non c’era né una linea né un altro segno che attestasse che erano divise. E poiché non volevo fidarmi solo dello sguardo, cominciai a tastare con tutti e due i pollici le palpebre e dopo averle palpate e toccate ben bene con una parte degli occhi, per la durata di un Padre Nostro e di un’Ave Maria, e dopo aver notato che il bambino non piangeva, tra me e me mi dissi che né la natura né la medicina potevano restituire la vista a quel figliolo. E così invitai il padre e la madre ad avere pazienza e a raccomandarsi a Dio, alla Madonna e ai Santi perché non c’era nessun rimedio umano in grado di potergli aprire gli occhi e farlo vedere. E, come ho già riferito, rimase nella cecità per sette o otto mesi e durante tale periodo io mi recavo spesso a visitarlo e a consolare la madre, e [49v] la sua condizione era sempre la stessa. Poi, trascorsi sette, otto mesi, un giorno passavo per l’abitazione di quel fanciullo e trovai sua zia, Giulia, che ora è morta, che portava in braccio il bambino; notai che aveva gli occhi aperti e me ne resi conto per i gesti e gli atti che faceva. Domandai a Giulia che cosa avevano fatto per riacquistare la vista e lei mi rispose che i giorni precedenti lo avevano portato al Convento dei Padri Cappuccini di Leonessa, ove venivano custodite le Reliquie del padre fra Giuseppe Cappuccino. Lì un padre Cappuccino, Giuseppe Mastrozzi, di Leonessa anche lui, lo aveva segnato col segno della Croce con il Cuore del padre fra Giuseppe, custodito in un cristallo, sugli occhi e subito questi gli si aprirono e incominciò a vedere. All’udire ciò, restai perplesso ed esclamai: “Oh che miracolo straordinario è avvenuto, dal momento che né la natura né la scienza medica avevano la possibilità di raggiungere questo risultato!”

(Tommaso Palla, medico)

Il teste viene poi interrogato sul punto 48, secondo la disposizione dell’interrogatorio numero 39 nell’ammonizione.

Egli dichiarò di poter dire soltanto quanto già affermato sopra.

Il teste fu interrogato e gli fu chiesto se quando toccò le palpebre di quel bambino aveva percepito che sotto erano presenti le pupille.

Tutte le volte che avevo toccato le palpebre di quel bambino non ero stato in grado di sapere se sotto ci fosse l’occhio o la pupilla o altro membro proprio dell’occhio e a questa conclusione sono arrivato perché quando ho toccato il bambino, in quella parte del corpo, non c’era né senso né movimento e questo lo so benissimo perché è la mia professione”. [50r]

(Tommaso, figlio di Lelio Palla, di Leonessa. Proc. 1639-41)

Ansidonia Palla

(Madre del bambino nato cieco)

Sono stata esaminata un’altra volta a Leonessa molti anni fa, a casa di Giuseppe Pulcini, dal notaio Agostino Sebastiani da Leonessa e da altri che non ricordo i nomi [60r] su questa grazia e sul miracolo che ho ricevuto.

Alla teste fu chiesto se fosse a conoscenza che altre persone avessero ricevuto grazie o miracoli per intercessione del suddetto padre fra Giuseppe Cappuccino da Leonessa, quali, in che tempo e quali fossero nei particolari.

Il primo aprile 1630 di circa nove anni fa, io partorii un figlio maschio che aveva sempre gli occhi chiusi e aveva le palpebre talmente attaccate insieme che non si distingueva alcun segno di divisione. Il giorno dopo lo battezzammo e gli mettemmo nome Felice. E poiché la sua condizione non cambiò nei quattro giorni seguenti, mandammo a chiamare Tommaso Palla, medico, che venne e visitò accuratamente il bambino; gli toccò la cavità oculare e le palpebre che erano così serrate. Si rivolse a me e a mio marito e a mia zia Giuli e ci disse: “Raccomandatevi a Dio perché il bambino è cieco e con i rimedi umani non potrà recuperare la vista perché sotto le palpebre chiuse non ci sono gli occhi e si mostra insensibile” e se ne andò. Tornò altre volte, perché era un mio parente, e mi consolava perché io piangevo e sempre il bambino fu trovato allo stesso modo. Anzi, per consolarci, gli legò un laccio al collo che non apportò giovamento al fanciullo. Dopo otto mesi dalla sua nascita, un giorno di dicembre, quasi ispirata da Dio, decisi di raggiungere [60v] la chiesa dei Padri Cappuccini di Leonessa portandomi il bambino con l’intenzione di raccomandarlo al beato Giuseppe Cappuccino e di farlo toccare con le sue Reliquie che venivano conservate in quel Convento; con me c’era mia zia Giulia. Suonai la campanella e venne ad aprire fra Giuseppe Mastrozzi. Gli confidai il mio desiderio e andò subito a prendere le Reliquie del beato Giuseppe, in particolare il Cuore, e lo portò in chiesa. Ci invitò ad inginocchiarci e a recitare il Padre Nostro e un’Ave Maria. Mentre noi stavamo pregando lui toccò, anzi fece il segno della Croce sopra il bambino che io tenevo in braccio e subito si aprirono le palpebre e si videro gli occhi e le pupille che si erano formate e che ci vide ne avemmo dei segni: gli misi davanti gli occhi la corona del Rosario e lui mostrò di vederla e fece come se volesse morderla con la bocca dal momento che le sue mani erano fasciate. Al vedere questo grande miracolo, i nostri occhi si riempirono di lacrime e ringraziammo il beato Giuseppe che ci aveva impetrata questa grazia da Dio. Poi tornammo a casa e tutte le persone di Leonessa che incontravamo per strada restavano meravigliate e ci chiedevano come fosse successo e noi raccontavano tutto nei minimi particolari”. (Ansidonia, figlia di Bersciano Palla da Leonessa, moglie di Benedetto Ferrazzoli).


IL MIRACOLO NELL’ABBAZIA DI SAN PIETRO IN FERENTILLO

“Quando ero Novizio, ho inteso dire, ma non ricordo da chi, che il Padre fra Giuseppe, quando andò a predicare ad Attigliano, trovò quella gente a ballare in piazza e lui li rimproverò dicendo loro che se non si fossero pentiti avrebbero finito per mangiare le foglie degli alberi per la fame e poco dopo infatti ci fu una carestia e fu necessario mangiare i fiori degli olmi.* E questo mi sembra che me lo riferì Fra Rufino da Perugia, Compagno del suddetto Padre fra Giuseppe, e questo se verificò circa 42 anni fa, ma lo seppi a Leonessa e non sò e non ricordo che mi abbia parlato di altro. Mentre Padre fra Giuseppe stava predicando all’Abbazia di San Pietro in Ferentillo, nella Quaresima di 34 anni fa, ero suo Compagno e trovai al’interno di un armadio una pentola di fave lesse che noi avevamo riposto lì molto tempo prima; erano ormai putrefatte e rovinate e così presi la pentola e la gettai dalla finestra quanto più lontano, forse all’altezza di 16 piedi. Il padre stava a pregare in chiesa. Dopo poco mi accorsi che quella pentola non si era frantumata né tanto meno l’acqua era uscita fuori, ma rimaneva ancora in piedi con le fave dentro. Mi meravigliai di questo ma anche pentito per averla gettata giù sotto: scesi subito in strada, ripresi la pentola e la riportai sopra, la riposi al suo posto. Intanto il padre fra Giuseppe era tornato dalla chiesa e un po’ risentito mi rimproverò: “Che hai fatto?”. Mi vergognai: forse aveva visto il mio gesto mentre pregava in chiesa? So solo che quelle stesse fave le mangiammo il giorno dopo ed erano buonissime!”

Il teste fu interrogato in che modo credesse che il padre Giuseppe avesse saputo il fatto raccontato e narrato dal momento che non era presente, ma lontano e stava pregando in chiesa?

Credo che il fatto gli sia stato rivelato dall’Angelo [99r] Custode dato che lui non ha potuto né vederlo né sentirlo eppure mi riprese tutto alterato: “Dimmi, che cosa hai fatto?”, mostrando di conoscerlo. Un’altra volta mi successe che io avevo fatto preparare alcuni pani bianchi per farli mangiare al Padre fra Giuseppe dopo le sue continue fatiche e glielo misi davanti. Lui, preoccupandosi più di me che di se stesso, ne tolse uno e lo pose davanti a me perché lo mangiassi. Al contrario, io ripresi quella pagnotta e la rimisi vicino a lui e questo scambio andò avanti per un po’ perché io volevo mangiare un pane scuro. Alla fine, perché questo gioco terminasse, presi quel pane e lo gettai contro il muro perché cadesse per terra sopra la paglia dove lui si metteva a riposare. Credetti che fosse caduto per terra o sulla paglia, come riferito, mentre, con meraviglia, lo vidi di nuovo sul tavolo che si muoveva piano piano verso di me, ma non vedevo chi lo spostava. Allora padre fra Giuseppe mi disse che questo era opera di Dio: “Hai visto, hai visto?!” E così lo mangiai perché non si può resistere alla volontà di Dio!

Il teste fu interrogato perché dicesse dove e quando e alla presenza di chi fosse avvenuto ciò.

Questo avvenne dentro l’Abbazia di San Pietro in Ferentillo, in tempo di Quaresima, verso la Settimana Santa; non c’era presente nessuno all’infuori di noi. [99v]”

(Reverendo Padre Fra Michelangelo Cappuccino Senesi)


GUARIGIONE DEL GIOVANE FRANCESCO ANTONIO GALLASCIO

Circa diciassette anni fa, mio nipote Francesco Antonio Gallascio, figlio di Giovani Gallascio e di Angela mia sorella, da un anno era malato a causa di una febbre sottile e per due pustole, una davanti a destra e l’altra, sempre a destra ma sotto la spalla, corrispondenti [107r] l’una a l’altra. Per chiarirlo chiamammo tre medici forestieri che gli praticarono molte cure e gli diedero sciroppi, medicine e molti impiastri, ma tutto senza esito positivo. Alla fine, sia i medici forestieri che quelli locali, dessero che non c’erano più speranze né rimedi.. Così, poiché non speravamo più che recuperasse la salute con le medicine umane, alla madre e a lui venne in mente di ricorrere Bonaventura Ciacchitto di Leonessa, all’intercessione del beato fra Giuseppe da Leonessa. Così un giorno si recarono al Convento dei Padri Cappuccini, dove erano conservate alcune Reliquie del beato e pregarono il Padre Guardiano, far Matteo Silvestri da Leonessa, che ora è morto, di toccare mio nipote con quelle Reliquie. Per ottenere questo si trattennero tutto il giorno ma il padre Guardiano non volle dar loro soddisfazione toccandolo come desideravano, affermando che erano state chiuse per ordine di un Monsignore, di cui non ricordo il nome, e che non poteva prenderle. E così la sera tornarono a casa, piangendo e disgustati. La mattina seguente io stesso mi recai al Convento e manifestai apertamente al Guardiano fra Matteo il mio dispiacere, lamentandomi per il fatto che aveva negato la volontà di toccare mio nipote con le Reliquie, come aveva fatto con altri. Lui si scusò e aggiunse che poteva soltanto darmi un pezzettino di tunica che aveva lui [107v] ed io, accontentandomi, gli chiesi di portare quel pezzetto alla casa di mia sorella e a mio nipote. Lo stesso giorno, dopo mezzogiorno, venne e lo diede a mia sorella. La sera stessa, al momento di medicare suo figlio, divise quel pezzetto di tunica e una parte la pose sulla piaga che stava avanti e un’altra su quella di dietro e, soltanto dopo, mise il solito impiastro e le solite fasce. Dopo aver fatto ciò, andò a dormire e per tutta la notte il figlio stette tranquillo come non era mai successo da quando si era ammalato. La mattina seguente la madre andò a vedere e a medicare le pieghe, levò le fasce e vide che entrambe le piaghe erano asciutte, si erano richiuse e rimase soltanto il segno della cicatrice. Mio nipote, così, fu liberato dalla febbre sottile e fu libero da ogni infermità e dopo tre o quattro giorni si alzò dal letto, recuperò le forze e da allora non si è più ammalato”.

(Bonaventura Ciacchitto di Leonessa, zio del miracolato)


MIRACOLI DEL SANTO

“Dopo la morte di fra Giuseppe, la veste e gli altri oggetti usati in vita da lui, sono stati da tutti considerati come Reliquie di santo e ora sono grandemente venerate non solo dalle nostre parti ma anche a Parma; a Madama Serenissima è stato portato un pollice, con il quale, si dice, siano state operate molte grazie, in virtù proprio della fede. (…) La Signora Franceschina Cardoni si trovava in una sua vigna di Fornoli vicino Amelia e arrivò un forte temporale con tanta grandine, tanto da rovinare tutti quei paesi, ma si salvò solo la sua vigna perché lei l’aveva aspersa con l’acqua con cui era stato il dito (di San Giuseppe). In particolare toccò gli alberi [222v] che pendevano fuori dalla vigna senza attaccare l’interno della vigna. Di questo sono a conoscenza, perché fu lei a raccontarmelo”.

(Padre fra Francesco Cappuccino)


MIRACOLO DEL VINO

“Mi trovavo con fra Girolamo da Leonessa [128r] a Campli di Norcia, circa cinque anni fa, dove eravamo andati per capire come si era verificato il miracolo del vino operato da padre fra Giuseppe. Lì trovammo una donna chiamata Finaura che viveva a casa sua e ci raccontò come era accaduto questo miracolo: un giovane di quindici anni, figlio di una donna povera di quel luogo, era ammalato; allora la madre pregò Finaura di intercedere perché il padre fra Giuseppe da Leonessa, che in quel tempo era impegnato a predicare in quel Castello, lo andasse a visitare, visto che a lei fu impossibile avvicinarlo nonostante che avesse insistito molto. Lei ci andò, in compagnia della madre del figlio malato, e finalmente lo convinse a visitarlo. Quando andò trovò il giovane a letto e con la febbre perché aveva una piaga nel petto e la mamma era in ansia per la sua vita. Il Padre lo avvicinò, gli fece un segno di Croce in prossimità della piaga, quindi si rivolse alla mamma e le chiese di rifocillarlo con la zuppa fatta di vino. Lei rispose che in casa non aveva vino; padre fra Giuseppe la invitò di nuovo a guardare bene all’interno di una stanzetta ove c’era un boccale e lì avrebbe trovato il vino. La donna, sicura di sé, replicò che non era possibile perché lei era povera e da tempo in casa sua non c’era più vino. Il padre, al contrario, la invitò di nuovo che Dio aveva provveduto [128v] e se ne andò. Appena uscito il padre, la madre si accorse che il figlio era migliorato molto. Poiché la piaga si era aperta, la donna quasi ispirata da Dio, si recò a guardare nel boccale e lo trovò pieno di vino. Superata la meraviglia iniziale e per obbedire al Padre fra Giuseppe, preparò un po’ di zuppa col vino e la diede da mangiare al figlio. Questi, appena l’ebbe mangiata, si ritrovò sano e libero in pochissimi giorni! Questo è, come già ho detto, quanto mi ha raccontato Finaura. Era presente il padre fra Girolamo Cappuccino da Leonessa. La madre si recò subito a ringraziare il padre fra Giuseppe che stava predicando. In seguito, dopo la morte di fra Giuseppe, mio zio Fra Andrea mi riferì di un chirurgo, di cui non so il nome, si tagliò il dito con il bisturi e gettava sangue. Il medico Severo, che era presente, gli disse: “Metti sulla ferita un po’ del sangue di fra Giuseppe”. Questi lo fece e la ferita si rimarginò subito e poté tornare a svolgere il suo lavoro. Questo particolare me lo raccontò mio zio, a casa mia, ad Ancarano, quando ancora non ero frate, ma non ricordo chi fosse presente e in quale circostanza me lo narrò. Sempre allora mi riferì che quando il corpo di fra Giuseppe da Leonessa stava in chiesa, vide che il suo viso e la sua mano sudavano”.

(Reverendo fra Benedetto laico Cappuccino di Ancarano)


MIRACOLO A BORBONA

Io, a circa otto o nove anni di età, stavo a Borbona, a casa mia, ammalato di febbre e di emorragia; erano ormai passati quattro mesi ed ero in fin di vita; i medici mi avevano dato per spacciato, in particolare il medico Severo di Amatrice. Un giorno, mio padre Petronio, aveva sentito che lì a Borbona era arrivato il padre fra Giuseppe da Leonessa e andò a trovarlo, lui si trovava nella chiesa della Madonna della Porta. Fra Giuseppe si accorse che mio padre era triste e gli chiese il motivo. Rispose che aveva un figlio, cioè io, in fin di vita, senza alcuna speranza, a dirla dei medici. Lui gli replicò di non prendersela perché non era niente. Così, dopo aver fatto tappa nella casa dell’Arciprete Lopez e dopo aver sostato un po’ in preghiera nella chiesa della Madonna della Porta, disse a mio padre: “Porta qui tuo figlio”. Lui, di rimando gli disse che non poteva perché era troppo malato; il padre fra Giuseppe insistette: “Vai a prenderlo”. Tornò a casa mi trovò che stavo in piedi e mi teneva per mano una [134v] mia zia. Allora mio padre, stupito, si fece il segno della Croce ed esclamò: “Come è possibile che sia in piedi?” Presomi in braccio mi disse che voleva portarmi a padre fra Giuseppe e mi portò in casa dell’Arciprete. Come padre fra Giuseppe mi vide, mi accarezzò e mi fece il segno della Croce sulla testa e mi mise al collo una immaginetta che si tolse dalla manica. Dopo questo, mio padre mi riportò a casa e mi sentii guarito, mi tornò l’appetito, recuperai le forze e tutti i miei parenti ritenevano che avessi avuto un miracolo”.

(Notaio Filauro, di Pietro Quaglia di Borbona).


MIRACOLO DEI CECI

“Da li stessi Vituzzi, dal notaio e da altri nominati seppi che nello stesso periodo a Otricoli c’era un uomo povero, che aveva una famiglia a carico e non aveva il cibo per mantenerla [227v]. Il Padre lo andò a trovare e si rese conto del vero bisogno. Invitò il pover uomo a seminare nell’orticello della sua casa un po’ di ceci e questi spuntarono in ventiquattro ore e maturarono, e man mano che venivano colti rinascevano in una quantità sempre maggiore. In questo modo l’uomo poté dar da mangiare alla sua famiglia”.

(Padre Francesco Chiodoli da Leonessa)


Questa è la storia di un uomo vissuto parecchi secoli fa e che oggi vogliamo farla conoscere e presentare perché ha molto da insegnare! Chi volesse saperne di più deve solo leggere i libri dei Processi!